Per alcuni anni
ho lavorato come operatrice presso un centro diurno della mia città: mi
occupavo di un gruppo di circa 7 bambini, seguendoli nei compiti per casa e in
altre attività ludico-ricreative. Conobbi così una bambina, dagli occhi tanto
dolci quanto tristi. Quando ci incontrammo la prima volta doveva ancora
compiere 7 anni, era alla fine del secondo anno di scuola primaria e una delle
prime cose che mi disse fu “io non so leggere”. Effettivamente la sua lettura era
molto stentata, avveniva “lettera per lettera” e successiva fusione in sillabe,
con molti errori di scambio lettere (soprattutto b/d, a/e, a/o…) e molte parole
sostituite con non parole. La comprensione era praticamente assente e anche la
scrittura era lenta e gli errori di tipo fonologico erano tanti. Osservando
queste sue difficoltà, pensai subito di trovarmi davanti ad un caso di
Dislessia: ne parlai con la mia responsabile che a sua volta si confrontò con i
genitori della bambina.
Purtroppo, a
causa della lunga lista d’attesa dell’ASL, per ottenere una valutazione
impiegammo quasi due anni! Ciò che mi ha stupito e a tratti confuso è quel che
accadde in quest’arco di tempo in cui aspettavamo la valutazione: attraverso
un lavoro mirato all’aumento dell’autostima, dell’autonomia, della conoscenza e
dell’accettazione di sé, la bambina ha tirato fuori delle risorse e delle
abilità (anche nell’apprendimento) a dir poco inaspettate!
A metà del
quarto anno di scuola primaria, arrivò la diagnosi di Disturbo
dell’Apprendimento e tutto ciò che essa comporta, quindi misure compensative e
dispensative a scuola. Ero stata la prima a sostenere l’importanza di intraprendere
questo percorso e tutt’ora credo che una diagnosi può evitare anni di
frustrazione ai bambini e alle loro famiglie. Eppure mi ritrovavo davanti una
bambina che aveva iniziato a divorare un libro dietro l’altro, leggendo con
passione, anche se alcuni errori erano ancora presenti. Acquisì molta
sicurezza, divenne una bambina vivace, socievole e determinata. Era sempre
stata consapevole delle sue difficoltà nell’apprendimento, ma le affrontava con
una grinta diversa.
Quest’esperienza
mi fece riflettere molto. Da neo-psicologa avevo imparato a inquadrare ogni
bambino in base alle sue difficoltà: c’era il dislessico, l’iperattivo, il
disgrafico, quello con disturbi di condotta, ecc… ma queste etichette sono
effettivamente utili a conoscerlo veramente? Continuo a sostenere che, in molti
casi, una diagnosi è fondamentale per garantire un sostegno adeguato al bambino
e alla sua famiglia. Penso anche che, a volte, si possono accantonare e
provare a vedere il bambino nella sua interezza, a scoprire e valorizzare
quelli che sono i suoi punti di forza. Sono fermamente convinta che quando una persona si sente vista e accettata
così com’è, riesce a tirare fuori delle risorse davvero inaspettate!
Dott.ssa Valentina
Marocco
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