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lunedì 12 novembre 2018

Donne: una paradossale realtà


Negli ultimi tempi c’è stato un gran parlare di molestie sessuali, abuso di potere, violenze, soprattutto a seguito del caso Weinstein, il famoso produttore cinematografico americano, accusato di stupro da molte donne dello spettacolo. Questo caso ha scatenato una serie di denunce di molestie da parte di donne che, dopo anni di silenzio, sono riuscite a trovare il coraggio di parlare.



Eppure, in queste situazioni, soprattutto nel nostro Paese, spesso accade che la vittima si trovi a dover giustificare prima il suo silenzio, e poi il suo comportamento che avrebbe potuto “provocare” o “favorire” la violenza; come se il non essere riuscita a evitare l’abuso fosse responsabilità anche della vittima, magari perché indossava un vestito scollato o perché il panico e la paura non le hanno permesso di scappare o perché per anni ha sopportato in silenzio.

Non essendo la materia giuridica un mio campo specifico, mi soffermo a riflettere su quale tipo di cultura riesca a produrre questo pensiero sessista: è possibile che ancora oggi in Italia bisogna lottare per questo? Siamo ancora sull’idea che una donna può in qualche modo essere responsabile di una molestia per un suo comportamento?

Qualche giorno fa ho letto un articolo di mia sorella, consulente di immagine, in cui sfogava la sua frustrazione nel sentirsi spesso limitata nella scelta dell’abbigliamento per evitare “complimenti” e volgarità di simpatici gentiluomini, spiegando come la fanno sentire un po’ carne da macello. Ciò che mi ha lasciata perplessa sono stati i commenti che hanno seguito questo articolo: non solo ci sono stati molti uomini che hanno giustificato questa loro discutibile abitudine come degli apprezzamenti per la bellezza di una donna, ma, ancora più grave, molte sono state le donne che hanno affermato di gradire certe attenzioni e addirittura di sentirne la mancanza quando non ci sono.

https://www.buongiornoprincipessa.net/a-bella-complimento-o-molestia/?fbclid=IwAR2cktAcTvHPygSr7BM9PZuDahMh8QShjGEoG2cwBRSFY0y1LeuZNk18LaA



Mi chiedo, dunque, se non sentiamo noi donne per prime il bisogno di essere viste come persone e non come un corpo da spogliare con gli occhi; se siamo noi ad educare le nostre figlie a vestirsi in modo da non provocare gli uomini e non come fa star bene loro; noi a vantarci quando i nostri figli collezionano ragazze come figurine; noi che accettiamo volentieri che un “uomo” ci fischi dall’auto, come potrà cambiare qualcosa?


Dott.ssa Valentina Marocco

mercoledì 1 agosto 2018

LE 12 BARRIERE DELLA COMUNICAZIONE


Quante volte ci capita di confidarci con qualcuno e di sentire di non essere veramente ascoltati? O di non capire come mai la persona che ci parla sembra che non sia intenzionata a seguire i nostri “ottimi” consigli? Oppure sentire da nostro figlio, partner, studente, collega, amico… “tu non mi capisci!!”?

C’è un motivo per cui succede tutto questo: le parole che decidiamo di usare hanno un grosso potere sull’altro. Scegliere una frase piuttosto che un’altra, può condizionare il messaggio che vogliamo mandare.
Thomas Gordon (1918 - 2002), psicologo clinico americano, ha messo in luce quelle frasi e quei comportamenti che generano allontanamento e chiusura nell’altro quando c’è un’iterazione tra persone, definendole “barriere della comunicazione”.

SCOPRIAMO INSIEME QUALI SONO LE BARRIERE DELLA COMUNICAZIONE: 
1.    Ordinare, comandare, esigere

“Adesso devi…”
“Fai subito…”
Questo tipo di approccio è disfunzionale anche quando siamo di fronte a una reale gerarchia tra gli attori della comunicazione. Per esempio un capo ufficio che si rivolge così ai suoi dipendenti è certamente tollerato ma alla lunga viene disprezzato. Se, però, non esiste alcuna gerarchia conclamata tra le parti, allora ordinare, comandare ed esigere sono solo azioni aggressive utili solo a compromettere il rapporto.

2.    Minacciare
“È molto meglio se…”
“Se non farai così allora…”
La parte minacciata si chiude e pensa solo a come difendersi. Questo genera rabbia e desiderio di ribellarsi.

3.    Sgridare, rimproverare, fare la morale

“Dovresti imparare a…”
“Se mi avessi dato ascolto…”
 Questo tipo di frasi comunicano all’altro la mancanza di fiducia nelle loro capacità e creano sensi di colpa. 

4.    Offrire soluzioni già pronte

“Io al tuo posto avrei…”
“In questo caso la cosa migliore da fare è…”
Impediscono alla persona di riflettere sul suo problema, di considerare soluzioni alternative e di sperimentarle realmente. Possono provocare dipendenza o resistenza nell’altro.

5.    Persuadere con argomentazioni logiche

“Lascia stare le sensazioni, le variabili oggettive in questo caso sono…”
“Le cose stanno così…”
Sollecitano risposte difensive, di chiusura e non ascolto. Quando si affronta una discussione importante con qualcuno bisogna fare molta attenzione a non sminuire le sue emozioni riducendo tutto a formule matematiche.

6.    Criticare, insultare

“Non capisci niente…”
“Stai perdendo tempo…”
Possono far sentire l’altro incompetente, inferiore. La comunicazione può essere interrotta per evitare un giudizio negativo e si tenderà a nascondere i propri vissuti.

7.    Lusingare o fare complimenti eccessivi

“Sei l’unico che può aiutarmi…”
“Questa è l’idea più geniale che abbia mai sentito…”
“sei talmente intelligente che sicuramente…”
Magari inizialmente l'interlocutore proverà un discreto piacere nel sentirsi dire certe cose, a lungo andare potrebbe sentirsi manipolato.

8.    Stereotipare, ridicolizzare o umiliare

“Sei solo un ragazzino!”
“Sei la classica donna viziata!”
Sono svalutazioni, etichette che possono avere un effetto devastante sull’altro.

9.    Interpretare

“In realtà non vuoi dire questo…”
“sei solamente stanca…”
In questo modo si manifesta all’altro tutta la propria arroganza. Ci mostriamo più bravi di lui non solo a spiegare le cose, ma anche a entrare in sintonia con i suoi pensieri. Quando interpretiamo quello che viene detto stiamo comunicando un messaggio molto chiaro: io capisco i tuoi pensieri e tu no!

10.  Minimizzare

“Ma sì, vedrai che si sistema tutto…”
“La fai più grossa di quello che è…”
“Non ti preoccupare, non è nulla…”
Le emozioni sono soggettive e minimizzare quello che gli altri amplifica il loro dolore. 

11.  Mettere in dubbio, indagare

"Sei sicuro che sia andata proprio così?"
"Mi sembra impossibile che si sia comportata in quel modo…"
"Perché...? Come...? Quando...?"
Mettere in discussione ciò che l'altro sta raccontando è molto rischioso: può darsi che uno sfogo non sia molto attendibile ma proprio in quel momento è meglio evitare di contraddire chi sta aprendo il suo cuore. Inoltre fare troppe domande potrebbe portare l'altro a concentrarsi sulle risposte da dare per soddisfare la nostra curiosità, invece che sul suo problema.

12.  Cambiare argomento

“Vabbè ma possiamo parlarne un’altra volta…”
“Prima ti devo chiedere una cosa…”
Cambiare argomento è un diritto, ma dobbiamo essere molto chiari sul perché intendiamo farlo. Il rischio è che l’altro possa pensare che le sue difficoltà non siano importanti e decidere che non valga la pena aprirsi di nuovo.

Superare le paure

Anche se a volte è più difficile trovarlo, c'è sempre qualcosa di bello intorno a noi

sabato 7 aprile 2018

L'ADOLESCENTE: QUELLA STRANA CREATURA!


Ad un certo punto della vita un genitore si ritrova a convivere con una strana creatura che dorme nella cameretta del figlio, si chiama come lui ma non assomiglia affatto a lui. Il genitore lo guarda e, invece di trovare il dolce sorriso del suo bambino, ha davanti un adolescente imbronciato!

Ma cos’è l’adolescenza?

Possiamo definirla come il tempo della metamorfosi; la metamorfosi somatica riguarda il cambiamento ormonale e corporeo: l’adolescente non si riconosce e può mettere in atto una serie di accorgimenti per camuffare un corpo indesiderato attraverso il trucco, i piercing o i tatuaggi.

La metamorfosi della personalità ha a che fare con la trasformazione dell’Io e delle relazioni familiari: i rapporti dentro casa devono essere rinegoziati.
La metamorfosi sociale mette a confronto l’adolescente, non più solo con l’ambiente familiare, ma con il gruppo dei pari: l’amicizia a questa età ha lo scopo di facilitare la transizione dalla vita protetta all’interno della famiglia a una vita indipendente nel mondo degli adulti. L’identificazione con il gruppo dei pari costituisce un punto di riferimento fondamentale per affrontare i momenti più critici della propria esperienza di crescita.


Questo stravolgimento conduce il ragazzo nel profondo di una crisi d’identità, nella quale i punti di riferimento precedentemente noti e stabili, come i genitori, perdono la loro valenza e la loro funzionalità.

Tale crisi fa si che l’adolescenza sia anche il periodo dell’insicurezza e della paura e di fronte a quest’ultima si attivano i meccanismi di difesa di fuga e violenza. La fuga può manifestarsi con una reale fuga da casa o come una fuga psicologica: la depressione come fuga all’interno di sé, l’isolamento come fuga dagli altri. La violenza, invece, può essere messa in atto attraverso gesti distruttivi verso gli altri, verso la famiglia o la società, oppure contro se stessi con droga, alcol, disturbi alimentari, autolesionismo.

Bisogna sottolineare che l’insicurezza e la paura in adolescenza non sono un male o una psicopatologia, ma sono ingredienti fondamentali per la crescita: attraversando questa crisi profonda il ragazzo impara a conoscersi, a misurarsi e a confrontarsi con il mondo.

E quindi cosa possono fare i genitori?

Anche per i genitori questo è un periodo ricco di cambiamenti: devono imparare a tollerare l’ansia, la paura, l’incertezza e il senso di inadeguatezza che essi provano davanti a un figlio che non riconoscono più. Il gruppo dei pari viene percepito con apprensione, con la paura che possa rappresentare una cattiva compagnia.

È importante ricordare che per l’adolescente il bisogno di indipendenza e di separazione è tanto forte quanto l’esigenza di appartenere. La sua paura di crescere è tanta e il suo bisogno più forte è sapere che non è solo. La famiglia, quindi, deve cercare di raggiungere un equilibrio fra due compiti opposti: da un lato promuovere e favorire la svincolo dell’adolescente e  dall’altro, quello di essere una base sicura per il ragazzo, soprattutto nei momenti di difficoltà. I genitori devono far capire al figlio che hanno fiducia in lui, che lo ritengono competente, accettandone le opinioni e chiedendone il punto di vista nelle discussioni.

È facile per una famiglia entrare in crisi in questo periodo: bisogna mettere in campo tutte le risorse necessarie per mantenere un equilibrio e a volte può essere utile chiedere un aiuto esterno.

Dott.ssa Valentina Marocco




martedì 3 aprile 2018

IO NON SONO COME MIA MADRE

“Non sono come mia madre”
 “Mio padre faceva sempre così, quindi anche io mi comporterò allo stesso modo”
 “Con mio figlio non farò quest’errore!”
 “Se questa cosa ha funzionato con me, funzionerà anche per mio figlio”

A quale genitore non è capitato di fare un pensiero di questo tipo? Che si voglia seguire lo stile educativo dei nostri genitori o si provi a fare l’esatto contrario, una cosa è certa: quando si diventa mamma o papà, l’immagine che abbiamo dei nostri genitori influenza le nostre scelte!

La relazione con i genitori è la prima finestra sul mondo di un bambino: attraverso di essa impara a conoscere se stesso, i suoi bisogni e come soddisfarli; inoltre è il primo confronto con l’altro, il mezzo attraverso il quale apprende se il mondo è un posto sicuro o meno. Sarà quindi semplice comprendere quanto questo rapporto influenzerà tutti i rapporti futuri, in particolar modo quello con i propri figli.

Quando questo può diventare un ostacolo?

Se, attraverso una riflessione, consideriamo le scelte educative dei nostri genitori giuste, coerenti con i nostri valori e adeguate anche per i nostri figli, sarà facile seguirle. Anche nel caso in cui non le condividiamo, la scelta di fare diversamente sarà altrettanto scontata.

A volte capita però di non essere così consapevoli e di agire più d’istinto, inserendo il nostro pilota automatico interno: in questo caso diventano evidenti le influenze dei nostri primi legami e di come veniamo condizionati anche in età adulta da essi.
Le scelte fatte con poca consapevolezza, spesso rispondono più ai nostri bisogni, alle nostre aspettative, ai nostri desideri, che a quelli dei nostri figli. 

 Situazioni di stress, stanchezza, malessere possono facilitare l’uso del pilota automatico: se, per esempio un nostro genitore era solito alzare la voce e rivolgersi a noi in modo aggressivo per riprenderci, è molto probabile che questa possa diventare anche una nostra modalità comportamentale; oppure si può fare fatica a tirare fuori la rabbia per paura di non saper gestire l’aggressività.
In entrambi i casi ci allontaniamo dal nostro compito genitoriale, per soddisfare il nostro bisogno di gestire la rabbia.

Imparare a conoscere se stessi come genitori è fondamentale: chiedersi che tipo di genitore si vuole essere, quali sono i nostri obiettivi, essere consapevoli di cosa vogliamo ottenere attraverso un’azione, una frase o un gesto. Sarà poi ancora più importante imparare a conoscere i propri figli: ognuno di loro ha una personalità e dei bisogni specifici e ogni scelta va fatta pensando alla loro unicità.

Il processo di consapevolezza e accettazione di sé è un lavoro che dura tutta la vita, e come affermava Carl Rogers, “quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare”.


Dott.ssa Valentina Marocco

venerdì 30 marzo 2018

DSA: il bambino come parte di un sistema



Possiamo considerare la famiglia come “un sistema aperto che funziona in relazione al suo contesto socio-culturale e che si evolve durante il ciclo di vita”(Walsh, 1986, p.53).
Le fasi del ciclo vitale della famiglia sono scandite da eventi normativi (matrimonio, nascita di un figlio, morte di un genitore anziano,…) ed eventi paranormativi (malattie, morti improvvisi, divorzi, traslochi,…).

Ad ogni tappa la famiglia ha bisogno di ristrutturarsi. Cambiano le priorità, la routine quotidiana, gli obiettivi e soprattutto i ruoli. Basti pensare alla nascita del primo figlio: oltre alla gioia, quest’evento porta ad uno sconvolgimento di tutto il sistema. C’è un vero salto generazionale in cui i genitori diventano nonni, i fratelli zii e i figli diventano genitori; inoltre i partner, da che erano solo una coppia, ora condividono la nuova funzione genitoriale.

Per affrontare questi cambiamenti, la famiglia ha bisogno di mettere in campo ogni risorsa disponibile per raggiungere un nuovo equilibrio. Quando ciò non avviene, il sistema si trova bloccato e può capitare che uno o più membri esplicitino il malessere attraverso dei sintomi.


Possiamo considerare la diagnosi di un figlio con Disturbo dell’apprendimento, come qualsiasi altra diagnosi, un evento paranormativo, che può destabilizzare l’intero sistema: il bambino deve comprendere e accettare ciò che sta accadendo, mantenendo un’autostima adeguata, i genitori hanno il compito di guidarlo nella scoperta delle sue abilità e accogliere le sue frustrazioni, oltre ad accettare loro stessi la situazione; anche il ruolo degli altri membri della famiglia è fondamentale, in quanto fonte di sostegno importante.
È possibile che in queste situazioni ci si trovi sopraffatti da forti emozioni di disagio, di rabbia e di paura.

Vediamo insieme alcune delle difficoltà in cui si può trovare la famiglia:
  • Il bambino può faticare a comprendere la situazione e sentirsi diverso e inadeguato rispetto ai suoi compagni;
  • i genitori, per “proteggere” il figlio, possono sminuire il problema, non aiutandolo nel compito di accettare questo nuovo aspetto di sé; questo atteggiamento di negazione può portare a pretendere dal bambino cose che non può fare o, al contrario, non chiedergli assolutamente nulla;
  • la famiglia può fare fatica a chiedere aiuto all’esterno, chiudendosi all’interno;
  • nel caso in cui ci siano altri fratelli o sorelle, potrebbero sentirsi trascurati o poco importanti per le attenzioni rivolte al bambino con il disturbo, o eccessivamente sottopressione, in quanto si chiede loro di soddisfare aspettative più alte.

Dunque, cosa fare?

È importante sapere che ogni famiglia ha in sé le capacità e le risorse per affrontare qualsiasi cambiamento. Quando ciò risulta più difficile è utile chiedere un sostegno ad uno specialista, che può accompagnare la famiglia in questo processo di ristrutturazione.

Dott.ssa Valentina Marocco


giovedì 29 marzo 2018

CONOSCERE E ACCETTARE SE STESSI PER ENTRARE IN RELAZIONE CON L'ALTRO

LE RISORSE DEI BAMBINI


Per alcuni anni ho lavorato come operatrice presso un centro diurno della mia città: mi occupavo di un gruppo di circa 7 bambini, seguendoli nei compiti per casa e in altre attività ludico-ricreative. Conobbi così una bambina, dagli occhi tanto dolci quanto tristi. Quando ci incontrammo la prima volta doveva ancora compiere 7 anni, era alla fine del secondo anno di scuola primaria e una delle prime cose che mi disse fu “io non so leggere”. Effettivamente la sua lettura era molto stentata, avveniva “lettera per lettera” e successiva fusione in sillabe, con molti errori di scambio lettere (soprattutto b/d, a/e, a/o…) e molte parole sostituite con non parole. La comprensione era praticamente assente e anche la scrittura era lenta e gli errori di tipo fonologico erano tanti. Osservando queste sue difficoltà, pensai subito di trovarmi davanti ad un caso di Dislessia: ne parlai con la mia responsabile che a sua volta si confrontò con i genitori della bambina.

Purtroppo, a causa della lunga lista d’attesa dell’ASL, per ottenere una valutazione impiegammo quasi due anni! Ciò che mi ha stupito e a tratti confuso è quel che accadde in quest’arco di tempo in cui aspettavamo la valutazione: attraverso un lavoro mirato all’aumento dell’autostima, dell’autonomia, della conoscenza e dell’accettazione di sé, la bambina ha tirato fuori delle risorse e delle abilità (anche nell’apprendimento) a dir poco inaspettate!


A metà del quarto anno di scuola primaria, arrivò la diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento e tutto ciò che essa comporta, quindi misure compensative e dispensative a scuola. Ero stata la prima a sostenere l’importanza di intraprendere questo percorso e tutt’ora credo che una diagnosi può evitare anni di frustrazione ai bambini e alle loro famiglie. Eppure mi ritrovavo davanti una bambina che aveva iniziato a divorare un libro dietro l’altro, leggendo con passione, anche se alcuni errori erano ancora presenti. Acquisì molta sicurezza, divenne una bambina vivace, socievole e determinata. Era sempre stata consapevole delle sue difficoltà nell’apprendimento, ma le affrontava con una grinta diversa.

Quest’esperienza mi fece riflettere molto. Da neo-psicologa avevo imparato a inquadrare ogni bambino in base alle sue difficoltà: c’era il dislessico, l’iperattivo, il disgrafico, quello con disturbi di condotta, ecc… ma queste etichette sono effettivamente utili a conoscerlo veramente? Continuo a sostenere che, in molti casi, una diagnosi è fondamentale per garantire un sostegno adeguato al bambino e alla sua famiglia. Penso anche che, a volte, si possono accantonare e provare a vedere il bambino nella sua interezza, a scoprire e valorizzare quelli che sono i suoi punti di forza. Sono fermamente convinta che quando una persona si sente vista e accettata così com’è, riesce a tirare fuori delle risorse davvero inaspettate!

 Dott.ssa Valentina Marocco